Dott.ssa Alessia Sapei – Osteopata Fisioterapista a Torino

Onde d’urto: un’onda di energia al servizio della riabilitazione

Negli ultimi anni le onde d’urto, o shock waves, sono diventate una delle terapie fisiche più interessanti nel campo della fisioterapia e riabilitazione muscoloscheletrica. Spesso associate al trattamento della “spina calcaneare” o delle tendiniti calcifiche, in realtà questa tecnologia ha un campo di applicazione molto più ampio e scientificamente fondato.

Cos’è la terapia a onde d’urto

La terapia con onde d’urto utilizza impulsi meccanici ad alta energia che si trasducono nei tessuti. Queste onde, prodotte da un generatore elettromagnetico, elettroidraulico o piezoelettrico, vengono convogliate su una zona specifica del corpo. L’energia meccanica trasmessa induce microstimoli controllati nei tessuti, che attivano una risposta biologica naturale: aumento della circolazione locale, stimolazione del metabolismo cellulare e rilascio di fattori di crescita che favoriscono la rigenerazione dei tessuti. In parole semplici, le onde d’urto “risvegliano” la capacità del corpo di guarire da solo.

Come agiscono

Gli effetti principali sono tre:

  1. Effetto antinfiammatorio: riduzione della produzione di mediatori infiammatori e miglioramento del drenaggio locale.
  2. Effetto antalgico: interferenza con la trasmissione nervosa del dolore e liberazione di endorfine.
  3. Effetto rigenerativo: stimolo alla neoangiogenesi (nuovi capillari) e alla riparazione dei tessuti tendinei e ossei.

Grazie a questi meccanismi, le onde d’urto non agiscono solo sui sintomi, ma favoriscono la guarigione biologica della struttura coinvolta.

Le principali applicazioni in fisioterapia

Le onde d’urto trovano indicazione in molte condizioni croniche dell’apparato muscoloscheletrico, in particolare quando altre terapie hanno dato risultati limitati:

  • Tendinopatia calcifica della spalla
  • Epicondilite (“gomito del tennista”)
  • Fascite plantare e spina calcaneare
  • Tendinopatia rotulea e achillea
  • Borsiti croniche
  • Sindrome dolorosa miofasciale (trigger points)
  • Ritardi di consolidazione ossea e pseudoartrosi

In alcuni casi vengono utilizzate anche per ridurre la fibrosi cicatriziale o favorire la mobilità articolare dopo interventi o traumi.

Come si svolge una seduta

Il trattamento è ambulatoriale, dura dai 10 ai 20 minuti. La sensazione può essere dolorosa.

Quando evitarle

Le onde d’urto non vanno utilizzate in presenza di tumori, infezioni locali, tendini o muscoli lesionati, gravidanza, trombosi venosa profonda o vicino a protesi metalliche recenti. Per questo è sempre importante una valutazione medica o fisioterapica qualificata prima di iniziare il trattamento.
Numerosi studi confermano l’efficacia delle onde d’urto, soprattutto nelle patologie tendinee croniche resistenti alle cure tradizionali. Pur non essendo una “bacchetta magica”, rappresentano un alleato prezioso per ridurre il dolore, migliorare la funzionalità e accelerare il recupero.

Distorsione di caviglia

Le distorsioni di caviglia sono tra le lesioni più comuni nel mondo dello sport e nelle attività quotidiane. Si verificano frequentemente quando il piede si muove in modo innaturale, solitamente verso l’interno (distorsione laterale), causando danni ai legamenti che stabilizzano l’articolazione. La gravità di questa lesione può variare da un lieve stiramento a una rottura completa dei legamenti, e può portare a complicazioni come instabilità cronica, dolore persistente, gonfiore dopo l’utilizzo e aumentato rischio di recidive.
La sintomatologia tipica include dolore acuto, gonfiore, ecchimosi, limitazione dei movimenti e, in alcuni casi, instabilità dell’articolazione. La diagnosi viene solitamente formulata attraverso l’esame clinico o con strumenti diagnostici come l’ecografia o la risonanza magnetica.
Il trattamento delle distorsioni di caviglia può essere conservativo o con intervento chirurgico. Nella maggior parte dei casi, si preferisce un approccio conservativo che comprende riposo, applicazione di ghiaccio, compressione e elevazione. La fisioterapia è fondamentale per favorire la riabilitazione, rafforzare i muscoli stabilizzatori e migliorare la mobilità articolare. Solo in caso di lesioni gravi o instabilità cronica può essere presa in considerazione la chirurgia.
Nel percorso riabilitativo delle distorsioni di caviglia, le terapie strumentali assumono un ruolo importante. Queste tecniche non invasive aiutano ad accelerare il recupero muscolare, ridurre l’infiammazione e il dolore, e migliorare la funzionalità articolare. Tra le più risolutive troviamo la QMR (in fase acutissima anche), la tecar terapia (in fase acuta) e le onde d’urto (in fase cronica per tendiniti che si possono instaurare). Sono strumenti che, se usati correttamente e in combinazione con altre metodiche riabilitative, permettono di ridurre i tempi di recupero, migliorare la qualità della vita del paziente e prevenire future recidive.
In conclusione, le distorsioni di caviglia rappresentano una problematica molto diffusa ma affrontabile con un trattamento tempestivo, appropriato e, soprattutto, con l’ausilio di terapie strumentali di ultima generazione; la prevenzione delle recidive deve diventare un obiettivo di trattamento.

Terapia strumentale nel trattamento manuale delle cicatrici

La Tecarterapia e la QMR (Quantum Magnetic Resonance) sono due innovazioni terapeutiche utilizzate nel trattamento manuale delle cicatrici, offrendo benefici significativi per la riabilitazione cutanea. La Tecarterapia sfrutta la radiofrequenza per riscaldare i tessuti profondi, stimolando la produzione di collagene e migliorando l’elasticità cutanea, riducendo così l’aspetto vario delle cicatrici.

La QMR, invece, utilizza campi magnetici pulsati per favorire la rigenerazione tissutale e ridurre l’infiammazione, migliorando l’aspetto estetico e la funzionalità della zona interessata. Entrambe le tecniche, applicate manualmente dai terapisti qualificati, rappresentano un approccio non invasivo e sicuro, rendendo il trattamento delle cicatrici più efficace e meno fastidioso rispetto alle tradizionali metodiche chirurgiche o farmacologiche.

Nel tempo, la Tecarterapia favorisce la produzione di nuovo collagene, contribuendo a migliorare la texture e l’elasticità della pelle, rendendo le cicatrici meno visibili e più integrate con i tessuti circostanti. Inoltre, stimolando il metabolismo cellulare, aiuta a ridurre le tensioni e i depositi di tessuto fibrotico, che spesso causano rigidità e dolore.

La QMR, attraverso i campi magnetici pulsati, favorisce il riassorbimento delle aderenze e la rigenerazione tissutale profonda, migliorando la mobilità e riducendo le restrizioni funzionali.
Un grande beneficio di queste tecniche è il loro ruolo nello scollamento delle aderenze: le cicatrici post-chirurgiche o traumatiche possono causare aderenze fibrotiche che limitano il movimento e causano dolore cronico.

La combinazione di Tecarterapia e QMR permette di sciogliere queste aderenze, ristabilendo la normale mobilità dei tessuti e migliorando la qualità di vita del paziente. A lungo termine, questa terapia contribuisce a un progressivo miglioramento estetico e funzionale, prevenendo recidive e riducendo la necessità di interventi chirurgici invasivi.

Sindrome dello Stretto Toracico (SST)

Con Sindrome dello Stretto Toracico (o Sindrome degli scaleni) si intende quell’insieme di sintomi e disturbi dovuti alla compressione dei fasci nervosi e/o vascolari che, partendo dal collo per andare verso l’arto superiore, si incanalano nello spazio fisiologico compreso tra la clavicola, la prima costa e i muscoli scaleni, succlavio e piccolo pettorale, spazio denominato appunto Stretto Toracico.

A seconda di dove avviene la compressione e di quali strutture interessa, la SST può provocare sintomi neurologici oppure circolatori. Se ad essere compresso è il fascio nervoso (forma più diffusa, circa il 95%) si rileverà un intorpidimento e formicolio al braccio o alle dita poste all’estremità di quest’ultimo; dolore o fastidio al collo, alla spalla o alla mano la quale avrà una presa debole. Se invece la compressione riguarda la parte vascolare (venosa o arteriosa) i sintomi saranno legati al rallentamento o parziale stasi del flusso sanguigno con pallore delle dita e della mano o pelle cianotica, dolore e/o gonfiore al braccio, sensazione di gelo alle dita alla mano e al braccio, debolezza del braccio o del collo anche dopo un’attività non intensa e zona pulsante vicino alla clavicola.
La SST viene spesso confusa con la cervico-brachialgia a causa di sintomi comuni che tuttavia originano da un diverso problema meccanico come ad esempio un’ernia o protrusione cervicale.

Le cause principali della SST, al netto di anomalie anatomiche congenite come la presenza di una costa accessoria cervicale o di un fascio di scaleni accessorio, riguardano per lo più aspetti di tipo meccanico e funzionale.

Le alterazioni posturali sono molto frequenti. La testa proiettata in avanti e le spalle chiuse portano ad un accorciamento associato di alcuni muscoli (scaleni, elevatore della scapola, piccolo pettorale) e all’abbassamento della clavicola, con conseguente restringimento degli spazi dove scorrono i vasi sanguigni e i nervi.

Anche una respirazione prevalentemente “alta” (che vede il coinvolgimento principale dei muscoli superiori del tronco) può portare alla SST. Infatti, essendo gli scaleni ed il piccolo pettorale, muscoli accessori della respirazione, essi possono andare incontro a iper-sollecitazione e ad una ipertrofia che letteralmente “strizza” i fasci nervosi e vascolari dello Stretto Toracico.

I traumi da caduta e da incidente stradale con fratture di clavicola, lussazioni di spalla e colpi di frusta possono portare ad una riduzione dell’apertura toracica superiore; mentre lo stress posturale derivante da carichi pesanti, può portare alla pressione e trazione del plesso nervoso brachiale. Infine anche le attività ripetitive lavorative ( uso prolungato del computer, lavorare in catena di montaggio, il sollevamento ripetuto di oggetti pesanti sopra la testa) o sportive (come ad esempio il baseball o il nuoto) possono comportare, a livello dello Stretto Toracico, un’usura dei tessuti, fino all’insorgenza di vere e proprie patologie.

Poichè, come abbiamo detto, spesso la causa è di natura posturale il primo approccio è di tipo conservativo riabilitativo ed il trattamento risulta spesso sufficiente a controllare le forme di grado moderato. Il trattamento chirurgico va riservato ai casi di dolore persistente, di perdita significativa di forza, grave sintomatologia arteriosa o danni nervosi.

Il trattamento osteopatico, unito a mirati esercizi fisioterapici, è di sicuro il sistema elettivo per valutare e trattare la Sindrome dello Stretto Toracico. Gli obiettivi principali saranno tesi ad allentare la compressione biomeccanica sui nervi e sui vasi sanguigni nella zona interessata, migliorare la flessibilità muscolare e la mobilità delle articolazioni e del tessuto connettivo, controllare il dolore e gli altri sintomi migliorando la qualità della vita del paziente. In seguito potranno essere consigliati esercizi globali di rinforzo della muscolatura addominale, di rieducazione respiratoria improntata alla respirazione addominale-diaframmatica e al rilassamento della parte alta del torace ed infine esercizi specifici dell’arto superiore fino al raggiungimento e il mantenimento di una postura più fisiologica. Verranno raccomandati, nelle normali attività quotidiane, alcuni accorgimenti, come l’uso di braccioli o cuscini per alleggerire la cintura scapolare quando si lavora al computer e alcune posizione antalgiche per dormire in posizione laterale.

Vertigini da cervicale: risolvere si può!

Le vertigini possono essere definite come una sensazione di movimento, rotatorio, oscillatorio o di sbandamento quando in realtà si è fermi. A seconda del sistema di riferimento cui ci si riferisce, vengono definite vertigini soggettive se la sensazione di sbandamento riguarda il soggetto che riferisce mancanza di equilibrio oppure vertigini oggettive quando sembra che sia l’ambiente intorno a muoversi mentre il soggetto è fermo.
Questa sensazione può essere intermittente e durare da qualche secondo a delle ore o addirittura giorni, a volte peggiorando nel momento in cui si cambia posizione, o durante minimi movimenti della testa come tossire o starnutire. Le vertigini possono essere associate a nausea o vomito, a mal di testa o sensibilità a luce e rumori, a sdoppiamento della vista, problemi a parlare o a deglutire, aumento della frequenza cardiaca, fiato corto, debolezza e sudori.

Visti i numerosi sintomi associati non è sempre facile identificare le vere cause delle vertigini ecco perché è fondamentale innanzitutto avere una corretta diagnosi per poter procedere poi ad un trattamento adeguato e ad una cura. Infatti fra le cause scatenanti le vertigini sono inclusi problemi più o meno gravi che richiedono un trattamento repentino ( traumi alla testa come il colpo di frusta, ictus, attacchi ischemici transitori, emorragie cerebrali…) oppure che possono essere trattate senza urgenza dopo la diagnosi effettuata dal medico competente otorinolaringoiatra (problemi all’orecchio interno come infiammazioni o accumuli di calcio, labirintite, sindrome di Ménière, neurite vestibolare, emicrania, sclerosi multipla…). Quando la causa non è afferente a nessuna delle problematiche sopraesposte, in particolare nel caso delle vertigini soggettive, il problema scatenante è da ricercarsi nell’infiammazione della zona cervicale, ecco perchè questo tipo di vertigini sono anche dette “vertigini propriocettive” o “vertigine cervicogeniche”.
Tra le cause principali di vertigini da cervicale possono esserci traumi cranici e cervicali, torcicollo, cervicalgie, artrosi cervicale, ernie dei dischi intervertebrali situati all’altezza cervicale. Esse si intensificano con i movimenti del collo o con l’aumentare della cervicalgia e si riducono contestualmente all’alleviarsi del dolore, ad esempio in seguito all’assunzione di farmaci analgesici al rilassamento muscolare.
Anche una cattiva postura può contribuire alla vertigine cervicale; infatti i muscoli e le articolazioni del collo contengono infatti recettori deputati a trasmettere informazioni sull’orientamento della testa al cervello, agli occhi e all’orecchio interno. Se in questo sistema qualcosa non funziona correttamente, il cervello riceve dati inesatti creando un corto circuito il cui prodotto sono proprio le vertigini. Così ad esempio quando a causa di una prolungata inclinazione del collo verso il basso per guardare dispositivi elettronici (Sindrome da Smartphone), viene esercitata una pressione importante sulle strutture anatomiche del collo anche i vasi arteriosi del collo possono essere influenzati e causare vertigini, mal di testa, dolore al collo, alle braccia come nel caso della cervico-brachialgia.
In questi casi l’intervento dell’osteopata / fisioterapista sono volti a diminuire lo stato di tensione, l’infiammazione e la contrattura dei muscoli cervicali responsabili della sensazione di vertigini e sbandamenti, con esercizi di allungamento e stretching ripristinando le normali tensioni muscolari dei muscoli posteriori, laterali e anteriori del collo, e l’assetto posturale della zona cervicale in toto. Oltre al rachide cervicale, verranno esaminate e trattate anche altre aree del corpo ad esso correlate, come ad esempio: cranio, bocca, bacino, costato, schiena e a volte anche visceri riequilibrando le tensioni alla base del collo, alla base del cranio, le tensioni membranose del cranio e le disfunzioni fasciali, che possono interferire con la normale fisiologia dei neurorecettori dell’equilibrio.

La Fascite Plantare: ritrovare l’equilibrio posturale per risolverla

Per fascite plantare si intende un insieme di sintomi, a prevalenza dolorosa, che insorge in maniera graduale in base alla gravità del problema coinvolgendo la fascia plantare: essa rappresenta la causa più diffusa del dolore alla base del calcagno, alla pianta ed all’arco del piede.

Il dolore può comparire soprattutto al mattino. Infatti la fascia plantare, essendo stata in una posizione accorciata per un lungo periodo di tempo durante il sonno, al momento del risveglio a causa dei movimenti di allungamento del piede rimane contratta per l’infiammazione, provocando dolore. Il dolore insorge inoltre in diverse occasioni come ad esempio durante l’attività sportiva, oppure quando si sta troppo in piedi o si cammina molto con una sensazione di strappo o lacerazione e bruciore.

Essendo un’infiammazione che colpisce la banda fibrosa che dal tallone attraversa tutta la pianta del piede, fino alla base delle dita, la fascite plantare non andrebbe mai sottovalutata o trascurata, in quanto raramente regredisce senza trattamento e a lungo termine può causare problematiche invalidanti, soprattutto per chi pratica sport agonistico.

Le cause scatenanti della fascite plantare possono essere molteplici e anche combinate tra loro: esercizi fisici errati o allenamenti troppo intensi, utilizzo di calzature inadeguate, e soprattutto problematiche di sovraccarico strutturale o posturale.

La fascia plantare ha il compito molto importante di sostenere il piede mantenendo l’arco del piede in posizione curva, fungendo inoltre da ammortizzatore naturale, tramite un cuscinetto adiposo che la ricopre, assorbendo gli shock che si generano durante le normali attività quotidiane. Tuttavia, a causa di dismetrie degli arti o di utilizzo scorretto dei vari distretti della muscolatura coinvolti nel gesto atletico, il peso del corpo viene trasmesso al piede in maniera errata sollecitando oltremodo la fascia plantare e causandone l’infiammazione. Non a caso questa patologia colpisce per la maggior parte chi pratica sport frequentemente o in maniera agonistica come i corridori, i saltatori e i calciatori.

Il trattamento osteopatico/fisioterapico fornisce un’ottima soluzione per diminuire la flogosi, lenire il dolore e correggere le cause da cui si è originata la fascite plantare. Nella fase acuta il professionista consiglierà applicazioni di ghiaccio, stretching e riposo. Successivamente l’intervento sarà volto a ridurre la tensione nella fascia plantare, gestendo la causa dell’infiammazione per ridare elasticità ai tessuti con sedute di Tecar per drenare un eventuale edema e stimolare il tessuto connettivo della giunzione mio-tendinea e del legamento arcuato e con manipolazioni fasciali. Non fosse sufficiente si può optare per le onde d’urto.

L’osteopata andrà inoltre alla ricerca delle dismetrie posturali che hanno causato la fascite plantare. Il lavoro si concentrerà sul rafforzare i muscoli del piede che vengono messi in stress (tibiale posteriore e peroneo lungo); correggere la postura e riequilibrare la meccanica del piede liberando le tensioni che portano l’articolazione sottoastragalica a lussarsi anteriormente, intervenendo inoltre sulla meccanica dell’arto inferiore togliendo tensione dal polpaccio, mobilizzando l’articolazione del piede, sbloccando ginocchio e anca, andando ad agire sul bacino e a livello del passaggio dorsolombare, togliendo tensioni che possono sbilanciare anteriormente il baricentro creando un alterato carico sul piede.

Oltre al lavoro dell’operatore o del tecnico, poiché è importante cercare di dare “durata” alla modifica che apportiamo al piede attraverso degli esercizi di mantenimento. il paziente può eseguire alcuni esercizi per rilassare la zona e quindi effettuare un auto-trattamento, esercitando con una pallina da tennis una lieve compressione e massaggiando la pianta del piede e l’interno della volta plantare.

In altri casi, quando il piede è molto compromesso è necessario il supporto di un plantare che aiuti il piede a mantenere i risultati ottenuti con il lavoro osteopatico.

Sarà quindi utile un lavoro interdisciplinare con la figura di un podologo/posturologo in quanto la fisioterapia ed i plantari da soli non possono guarire la fascite plantare mentre la correzione della problematica posturale, che è alla base della fascite plantare, renderà meno probabile il ripresentarsi della problematica.

Ernia e Protrusione discale, differenze

L’ernia del disco, nota anche come ernia del nucleo polposo o ernia del disco intervertebrale, è una condizione che colpisce la colonna vertebrale, in particolare i dischi intervertebrali. I dischi intervertebrali sono strutture a forma di cuscinetto che si trovano tra le vertebre e agiscono come ammortizzatori per la colonna vertebrale. Un’ernia del disco si verifica quando il nucleo polposo, una sostanza gelatinosa che si trova all’interno del disco, fuoriesce attraverso un punto debole o un’area danneggiata nella parete esterna del disco, chiamata anello fibroso. Questo può essere causato da un trauma, come un movimento brusco o una lesione alla schiena, o da un deterioramento graduale del disco nel tempo.

La protrusione discale si verifica quando il nucleo polposo sporge leggermente attraverso un punto debole o un’area danneggiata nell’anello fibroso. A differenza di un’ernia del disco, in cui il nucleo polposo fuoriesce completamente attraverso l’anello fibroso, nella protrusione discale il nucleo polposo sporge solo parzialmente.

Quando il nucleo polposo si sporge attraverso l’anello fibroso, può mettere pressione sulle radici nervose circostanti o sul midollo spinale, causando sintomi dolorosi e altre problematiche. I sintomi comuni di un’ernia del disco possono includere dolore alla schiena o al collo, dolore irradiato agli arti superiori o inferiori (a seconda della posizione dell’ernia), intorpidimento, formicolio, debolezza muscolare e difficoltà di movimento. La protrusione discale di solito provoca sintomi meno intensi e può persino essere asintomatica.

La diagnosi di un’ernia del disco o di una protrusione può richiedere una combinazione di esami clinici, come l’esame fisico e la valutazione dei sintomi del paziente, insieme a test diagnostici come la risonanza magnetica (RM) o la tomografia computerizzata (TC), che possono fornire immagini dettagliate della colonna vertebrale e dei dischi. Queste indagini vengono prescritte di norma dallo specialista ortopedico o fisiatra.

Il trattamento per un’ernia del disco dipende dalla gravità dei sintomi e può includere opzioni conservative come riposo, farmaci per il dolore, terapia fisica, infiltrazioni di corticosteroidi o terapia manuale. In casi più gravi o se i sintomi persistono, può essere necessario un intervento chirurgico per rimuovere o riparare l’ernia del disco.

Il trattamento per la protrusione discale dipende dalla gravità dei sintomi e può includere opzioni conservative come riposo, farmaci per il dolore, terapia fisica, terapia manuale e esercizi di stretching e rafforzamento muscolare. In alcuni casi, può essere necessario ricorrere a interventi più invasivi, come infiltrazioni di corticosteroidi o, nei casi più gravi, chirurgia per rimuovere o riparare la protrusione discale.

Lombalgia e muscolo Quadrato dei Lombi

Il “mal di schiena”, più propriamente definito lombalgia, oltre ad essere tra le patologie diffuse in tutto il mondo, rappresenta anche la più frequente malattia dell’uomo dopo il comune raffreddore. Basti pensare che oltre il 70% della popolazione mondiale è destinata a presentare almeno un episodio di lombalgia nel corso della vita.
Ma non tutti i mal di schiena sono uguali!!! A partire dalla causa, dalla localizzazione, dalla sintomatologia per arrivare alla guarigione, la lombalgia presenta approcci di cura molto differenti ed è per questo che risulta fondamentale individuare la causa primaria scatenante e, quando possibile, risolverla.

E’ quindi fondamentale eseguire un’attenta anamnesi del quadro del paziente ed analizzare gli esami strumentali come la Risonanza Magnetica (RMN) per capire il motivo esatto che provoca algia in modo da poter distinguere una discopatia a livello lombare da una semplice contrattura o Trigger Point (punti muscolari iperdolenti): in entrambi i casi infatti il muscolo in questione risulterà indolenzito e dolente ma per cause completamente differenti.

Per capire la sintomatologia di una problematica in cui risulti coinvolto il Quadrato dei Lombi (QL) è necessario conoscere localizzazione e anatomia del muscolo oltre che le sue funzioni, al fine di riconoscere eventuali posture o movimenti sbagliati come causa del dolore.
Il QL si trova nella parete addominale posteriore, e simmetricamente a destra e sinistra, origina dalla cresta iliaca inserendosi sul margine inferiore della 12° costa, andando a contattare anche i processi trasversi delle vertebre lombari L1, L2, L3 ed L4. Esso è formato da due strati muscolari separati tra loro in maniera incompleta ed è rivestito anteriormente da una fascia che lo separa dal muscolo grande psoas, dai reni e dal colon ascendente e discendente.
La funzione del QL è molto importante nella stabilizzazione del bacino insieme ai suoi muscoli antagonisti (ileopsoas, retto addominale, obliquo interno ed esterno nella flessione dorsale) e nell’estensione del tratto lombare; entra in gioco contraendosi, durante il sollevamento di carichi pesanti o durante il movimento delle anche e può anche essere coinvolto nella rotazione del tronco. Infine, grazie alla sua inserzione con le coste, è coinvolto nell’atto respiratorio in particolare nelle espirazioni durante la tosse o gli sternuti.

È adesso più semplice capire perché tra i sintomi maggiormente caratteristici di una problematica al QL si riconosce la lombalgia in stazione eretta o durante l’azione di girarsi nel letto o durante la deambulazione. Un movimento di flessione abbinato alla torsione, come quando prendiamo e spostiamo un peso che si trova di fianco a noi, può attivare Punti Trigger ed a seconda di quali di essi siano coinvolti, il dolore può essere proiettato verso la cresta iliaca e al grande trocantere del femore, fino all’inguine o al quadrato inferiore dell’addome (punti trigger superficiali), o ancora verso la regione glutea vicino all’articolazione sacro-iliaca, oppure verso la regione infero esterna del gluteo (punti trigger più profondi). Alcuni movimenti eseguiti velocemente con la muscolatura ancora “fredda” e non pronta al gesto, oppure l’innalzamento di carichi eccessivi possono invece provocare lesioni muscolari come le “contratture” o gli “strappi muscolari” che, a seconda della loro gravità o grado di lesione, devono essere trattati dal fisioterapista o dalla figura professionale che vi seguirà.

In base alla causa scatenante del dolore al QL il lavoro impostato sarà differente:

  • in caso di Punti Trigger risulterà molto efficace il trattamento manuale basato sul massaggio miofasciale e sullo scarico dei punti stessi in cui si accumula maggior tensione; a seguire, una volta decontratta la muscolatura, il paziente sarà invitato ad eseguire in maniera costante pochi, ma specifici esercizi di stretching.
  • in caso di lesioni muscolari invece, è molto importante il riposo e l’esecuzione del protocollo P.R.I.C.E (protection, rest, ice, compression, elevation). Questo comporta che, durante la fase acuta il muscolo infortunato sia protetto da carichi eccessivi che potrebbero compromettere o rallentare il processo di guarigione. Il ghiaccio, o la crioterapia in genere, viene utilizzato per il suo effetto a livello vascolare e di riduzione del dolore che incide nel miglioramento a breve termine della sintomatologia del paziente. La compressione, attuata tramite bendaggi, limita la diffusione dell’edema dovuto al travaso di liquidi dai vasi lesi all’interno del sito della lesione. Il sollevamento dell’area lesa, invece, riduce la pressione locale e il sanguinamento, favorendo il drenaggio dell’essudato infiammatorio attraverso il sistema linfatico e riducendo di conseguenza l’edema e le relative complicanze. In questa e nel resto delle fasi che compongono la riabilitazione della lesione muscolare, la terapia manuale, il linfodrenaggio e il tape compressivo/funzionali, oltre che la Tecarterapia, possono risultare efficaci nel migliorare le condizioni del paziente e ottimizzare gli effetti della riabilitazione.

Trattamento osteopatico per l’Intestino, il nostro “secondo cervello”

La connessione tra cervello e intestino è un argomento del quale si parla da molto tempo nelle terapie alternative e questa sinergia è sempre più oggetto di studio anche a livello scientifico.
Studi recenti hanno dimostrato che l’intestino è deputato a molto di più che a digerire il cibo che ingeriamo; esso contiene milioni di cellule e fibre neuronali che costituiscono un vero e proprio sistema nervoso autonomo. Esso è in grado d’integrare ed elaborare stimoli esterni e interni ricevuti dal corpo, interagendo con il sistema nervoso centrale attraverso uno scambio di informazioni mediato dal sistema psico-neuro-immuno-endocrino (rilascio di ormoni, nervo vago, sistema immunitario). Ciò significa che i due “cervelli” si influenzano reciprocamente, determinando il nostro stato di benessere psico-fisico.

Condizioni di forte stress emotivo, associate ad una dieta non equilibrata ed ad una vita sedentaria, possono attivare i circuiti dell’ansia e della paura o alterare il microbiota intestinale, irritando la mucosa intestinale che, nei casi più gravi, può generare patologie o condizioni anche severe come la sindrome del colon irritabile (IBS) oppure la malattia infiammatoria intestinale.

“La sindrome dell’intestino irritabile (IBS) è una malattia gastrointestinale cronica ricorrente con sintomi e caratteristiche variabili che vanno dal dolore addominale a problematiche più serie associate a cambiamenti nelle abitudini intestinali. Circa il 10% della popolazione è affetta da IBS e quasi 200 persone su 100.000 ricevono una diagnosi iniziale di IBS ogni anno….
Questa disfunzione sensomotoria gastrointestinale può causare una deregolamentazione nell’asse cervello-intestino, che è la regione di elaborazione neurale tra intestino e cervello. La frequenza e l’intensità dei sintomi determinano la terapia medica, che comprende la riduzione del lattosio, integrazione di fibre e agenti di carica, lassativi, antispastici, antibiotici, antidepressivi, interventi psicologici. Tuttavia, l’efficacia di queste terapie varia da studio a studio e le prove dell’efficacia di queste terapie sono deboli. Alla luce della mancanza di farmaci affidabili ed efficaci per la gestione dell’IBS, c’è un crescente interesse per forme di terapie complementari e alternative”
(fonte: http://www.osteopatianews.net/intestinoirritabile/)

Quando il nostro organismo, inteso in questo senso come “insieme” corpo-mente, perde il suo equilibrio non sempre, nei casi più critici, possono bastare una sana dieta e l’allentamento delle tensioni quotidiane: in questo caso il trattamento osteopatico, attraverso la manipolazione viscerale, può essere un valido aiuto e sostegno.
I visceri infatti, scambiano costantemente informazioni con il sistema muscolo-scheletrico, cranio-sacrale, neuroendocrino ed emozionale, pertanto non è possibile isolare la funzionalità di un organo rispetto a quella della struttura a cui si lega (osso, legamento…) e da cui è contenuto, rispetto a un vaso sanguigno che lo nutre e ossigena o ad un nervo che lo mantiene in funzione. Il trattamento osteopatico degli organi addominali aiuta a normalizzare il flusso ematico, il fluido linfatico e l’equilibrio del sistema nervoso autonomo, e mira a ripristinare la normale motilità ed elasticità dei visceri o delle strutture peritoneali intorno ai visceri.
Il ruolo dell’osteopata può quindi garantire questo equilibrio in modo tale da mantenere una buona funzione e vitalità di tutte le componenti nel loro insieme e favorire l’omeostasi del paziente, ovvero il suo equilibrio interno che sottende alla salute.
Per quanto riguarda invece la parte più emozionale, quella relativa alla cura del costituiscono un valido sostegno pratiche di rilassamento e manipolazioni dolci come lo Shiatsu, antica disciplina giapponese di prevenzione e salutogenesi

EMOZIONI IN MOVIMENTO: INTEROCEZIONE MIOFASCIALE

(Tratto da Bordoni, Marelli; Complementary Medicine Research)

Esistono numerosi articoli in letteratura riguardo il sistema miofasciale, a livello psicologico e organico, in modo macroscopico e microscopico, ma ciò nonostante non abbiamo ancora una chiara conoscenza, né una comune visione per classificarlo. Esistono diversi approcci terapeutici manuali, ma spesso manca ancora la percezione del continuum miofasciale, di come questo collegamento globale sia in grado di stimolare le aree del cervello correlate allo stato emozionale e che il trattamento manuale stimoli la interocezione (capacità del corpo di percepire il proprio sistema e mantenerlo in equilibrio, la cosiddetta omeostasi). Per ottimizzare il trattamento miofasciale, l’aspetto psicologico non va sottovalutato e in alcuni casi sarebbe necessario l’affiancamento di un percorso psicologico al trattamento manuale, creando una multidisciplinarietà.

Ma cos’è esattamente il sistema miofasciale (o più comunemente fascia) e come funziona?
La fascia è un’unica entità, con la medesima origine embriologica; le nostre strutture corporee sono avvolte da tessuto connettivo, fascia appunto, creando una struttura continua con forma e funzione differenti per ogni tessuto e organo. La fascia è distribuita attraverso tutto il corpo, a diversi piani creando una matrice metabolica e meccanica. Ogni tessuto è in continuità con l’altro tramite matrice extracellulare. Esistono 4 tipi di fascia: superficiale (sulle regioni del corpo esclusi gli orifizi), assiale (sugli arti), meningea (intorno al sistema nervoso centrale e al sistema nervoso periferico), viscerale (dalla base del cranio fino alla cavità pelvica inglobando organi, sistema vascolare e linfatico). Il sistema fasciale permette il massimo dell’adattamento in tutte le direzioni, riprendendo il concetto di biotensegrità basato sulla presenza di alternati elementi in compressione (le ossa) che bilanciano lo stress in distrazione generato e ricevuto da elementi in continuità (muscoli e fascia). Questo sistema permette un costante adattamento della fascia ai cambiamenti e una qualsiasi riduzione di questa abilità può potenzialmente portare a una condizione patologica.
Il sistema miofasciale presenta una diversificata e diffusa innervazione, con terminazioni nervose talmente estese che considerando il numero totale dei recettori della fascia alcuni autori la comparano alla sensibilità di una retina, rendendo il continuum fasciale il sistema sensoriale più ricco, con recettori assegnati alle funzioni di propriocezione (posizione di sé e delle parti del corpo), nocicezione (percezione del dolore) e interocezione. Quest’ultimo riguarda il sistema autonomo e i sistemi che mantengono l’equilibrio (omeostasi) corporeo e può quindi modulare la rappresentazione esterna del corpo e quindi di conseguenza una possibile distorsione anche della propria immagine corporea influenzando l’emotività o la percezione del dolore. È quindi fondamentale considerare che quando si va a trattare il muscolo e la fascia non si sta effettuando un lavoro esclusivamente locale ma si stanno dando stimolazioni anche alle aree emotive del cervello. Ne conseguirà che le tecniche miofasciali sono in grado di agire localmente per quanto riguarda la risposta del corpo con un aumento locale del flusso sanguigno ed idratazione ma anche globalmente andando ad agire su parametri potenzialmente emotivi. Allo stesso modo emerge come una prolungata tensione miofasciale durante la giornata e le attività può modificare la condizione emozionale della persona (diversi studi sulla fibromialgia lo dimostrano). È possibile inoltre supporre che anche un’allodinia (sensazione errata e di solito fastidiosa di una percezione tattile) possa essere legata a una non corretta afferenza miofasciale, portando ad una condizione fisica ed emozionale patologica. Poiché la fascia è distribuita su tutto il corpo va da sé che una disfunzione miofasciale può comportare un’alterazione della postura e dell’umore, quindi agire su più fronti può essere la chiave per risolvere le problematiche di dolori ripetuti posturali e non. Al momento non esistono ancora molti studi riguardo il lavoro multidisciplinare su componente emotiva e miofasciale, ma la tendenza è di andare in questa direzione… i risultati spesso invece già si vedono nel quotidiano!